Entrevista al reggista Giancarlo del Monaco en la web sistemamusica.it en Enero del 2004 sobre "la Fanciulla del West", producción que veremos en el Teatro de la Maestranza.
di Gaia Varon
Gennaio 2004
«La fanciulla del West è un’opera molto delicata, ricca di un canto difficile non solo vocalmente, ma espressivamente: il cuore di tutto è nei rapporti fra i personaggi e bisogna che si guardino negli occhi».
Quanto è meravigliosamente aggrovigliato e spiazzante il percorso che porta dall’interiorità di un artista alla sua opera: Giancarlo Del Monaco ha creato, nel 1991, per il Metropolitan di New York, un’applauditissima regia della Fanciulla del West che sta girando il mondo e che approda ora al Teatro Regio, sontuosa, spettacolare e dichiaratamente ispirata alla grande tradizione del cinema western.
Eppure le prime parole che spende per raccontarla riguardano la musica e costituiscono la difesa appassionata di un’opera spesso considerata una sorta di brutto anatroccolo della covata pucciniana, proprio per una presenza di color locale che sembra esser soverchiante rispetto all’intimità e al pathos di una Bohème o anche di un’opera pure improntata al colore come Madama Butterfly.
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Giancarlo Del Monaco, del resto con la Fanciulla ci è cresciuto: lei era un ragazzino quando suo padre Mario la cantò a Firenze, assieme a Eleanor Steber, sotto la guida di Dimitri Mitropoulos, in un’edizione rimasta nella memoria come una delle più riuscite in assoluto; se la ricorda?
«Certamente, quella musica me la sono sempre portata un po’ dietro e da quella sono partito, o meglio dal senso musicale dell’America che Puccini voleva trasmettere: la mia prima ispirazione è la musica».
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La seconda però è il cinema western.
«Sì, è proprio una produzione nata col desiderio di realizzare non un lavoro operistico quanto piuttosto uno cinematografico; e infatti ci sono stuntmen, cavalli, fucili, sparatorie, tutto il corredo del western. E la gelosia è il motore di tutto, da cui si generano il cascadeur che, a causa del classico cazzotto, cade dal secondo piano e precipita rompendo la balaustra, le bottiglie di zucchero spaccate in testa, sedie che volano in pezzi… E ho introdotto qualche cambiamento; il secondo atto, per esempio, dovrebbe essere ambientato tutto in un interno, la casetta di Minnie; io invece l’ho diviso, fra interno ed esterno, metà casetta, metà sotto la neve; la neve c’è anche nella partitura, la si sente attraverso la musica, ma qui la si vede, neve teatrale ovviamente, dunque macchine del vento, cannoni da neve».
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Dica la verità, si diverte un mondo con questa sua produzione di Fanciulla!
«È vero, non ci sono tante opere con cui si può giocare così tra cinema e teatro. E assieme bisogna stare molto attenti: è facile nella Fanciulla sbagliare atmosfera, e questo è mortale per l’opera, perché qui si parla di un mondo molto specifico, la California della corsa all’oro. Il terzo atto prevede per esempio una foresta californiana, ma è un errore: non è possibile in teatro ottenere per mezzo della scenografia una natura soddisfacente, men che meno qui, con le antichissime e immense sequoie; a una delle quali perdipiù bisognerebbe, a un certo punto, impiccare il tenore, e si immagini, se la sequoia di cartone si mette a ballare? Allora, visto che siamo all’epoca della corsa all’oro, l’ho ambientata in una Ghost Town».
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Ossia una di quelle città venute su velocemente attorno a una miniera e poi rapidamente abbandonate quando quella diventava improduttiva. In effetti in California ce ne sono diverse e sono luoghi senza dubbio molto suggestivi e inquietanti, oggi. Ma ai tempi della corsa non erano piene?
«Onestamente non mi sono posto questa, bensì un’altra domanda: è meglio una foresta di sequoie o una Ghost Town? E ho scelto senz’altro quest’ultima, che mi permette di preparare bene l’agguato, celando i personaggi al secondo piano dietro le finestre sgangherate, con il vento che le fa sbattere. Quando si fa regia bisogna cercare di fare il massimo».
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Finestre che sbattono, e poi fucilate, sedie che volano in pezzi e bottiglie sfracellate sulle teste fanno rumore; al cinema, quei rumori si cercano, spesso costruendoli con grande cura. Ma all’opera? Non interferiscono con la musica?
«I rumori ci sono, la famosa bottiglia di zucchero, spaccandosi, fa proprio il rumore del vetro; nella grande scazzottatura del primo atto la musica è molto forte, il tumulto è proprio nella musica, in quel tumulto di gelosia penso allora che cazzotti, rotture eccetera assieme alla musica diano un effetto, magari non così preciso e chiaro, ma simile a quello del cinema».